La formazione della coscienza in materia sociale e politica secondo gli insegnamenti del Beato Josemaría Escrivá (1997)[1]
Angel Rodríguez Luño
1. Introduzione
Una presentazione completa, condotta con metodo scientifico, del pensiero del san Josemaría Escrivá sull’azione sociale e politica del cristiano richiederebbe un approfondito studio del materiale abbondantissimo costituito dai suoi scritti e dalla sua predicazione orale. Trattandosi di un materiale che raccoglie gli insegnamenti di quasi cinquant’anni di intensa attività, in alcuni casi sarebbe necessario un paziente lavoro di catalogazione, di datazione, di indagine delle fonti e, soprattutto, delle finalità e del contesto preciso dei documenti disponibili. Questo lavoro permetterebbe, per esempio, di comprendere meglio come nei suoi insegnamenti si coniuga la riflessione attenta sull’evoluzione del magistero sociale della Chiesa con l’impostazione di questioni e di prospettive chiaramente innovatrici o anticipatrici, che in ultima analisi derivano dal suo carisma fondazionale. A tutto ciò andrebbe aggiunto l’esame delle testimonianze scritte delle tantissime persone che lo hanno avvicinato, che ne hanno ascoltato gli insegnamenti e che sono state testimoni della sua attività, nonché lo studio della bibliografia esistente[2].
Un importante studioso degli scritti che ora ci occupano segnala che in essi non si traccia «un programma teorico di azione», bensì viene comunicata una «vita»[3]. Ciò significa che non ci troviamo di fronte a un’esposizione accademica che distingue analiticamente i principi e le conclusioni che da essi si traggono, ma a una sintesi vitale, meditata profondamente e maturata negli anni, di principi teologici e spirituali, vagliati alla luce del carisma fondazionale, che tocca allo studioso comprendere, distinguere e in qualche caso spiegare. In definitiva, sarebbe necessario prendere in considerazione l’intera esperienza spirituale, pastorale e di riflessione teologica che stanno alla base di questi insegnamenti: un compito davvero vasto ma necessario per poter disporre dei principi ermeneutici adeguati[4].
In questo breve studio non è possibile affrontare l’argomento con la metodologia delineata, che richiederebbe, tra l’altro, un insieme di strumenti storici (una biografia scientifica, un’edizione critica delle opere complete o, quantomeno, degli studi storico-critici sulle opere più significative in ordine al tema che ci interessa, eccetera) che ancora non sono stati pubblicati[5]. Ci limiteremo pertanto a individuare, con metodo sostanzialmente sincronico, gli aspetti centrali del nostro tema e a indicare il contesto nel quale, a nostro giudizio, è conveniente collocarli per arrivare a una fedele comprensione.
2. Il contesto: la formazione della coscienza cristiana
Negli scritti da noi esaminati si incontrano abbondanti riflessioni teologico-morali sull’azione dei cristiani in campo sociale e politico[6], ma non troviamo quelle che comunemente vengono definite “idee e opinioni politiche”. E questo fatto riflette una linea di condotta assunta coscientemente e costantemente rispettata. San Josemaría più volte ha affermato: «Io non parlo mai di politica»[7]. Con queste parole voleva dichiarare la sua regola di non proporre né di suggerire «la soluzione concreta di un determinato problema, scartando altre soluzioni possibili e legittime, in contrapposizione a quanti propongono il contrario»[8]. In tal modo si rifiutava di intervenire nel comune dibattito politico, nel gioco delle opinioni che di solito portano i cittadini a iscriversi ai diversi partiti politici, ai sindacati, ai movimenti culturali, eccetera, con il proposito di concorrere nobilmente alla configurazione politica della nostra vita in comune. E mai permise che le sue parole e la sua attività fossero interpretate in senso politico.
Perché adottò questa linea di condotta? Lo studio dei suoi scritti permette di addurre vari motivi. Ricordiamo in primo luogo il carattere completamente ed esclusivamente sacerdotale[9] che ha voluto dare a tutta la sua attività («la mia missione di sacerdote è esclusivamente spirituale»[10]), e la chiarissima coscienza della missione soprannaturale della Chiesa, che gli impediva di concepire il cristianesimo come «un movimento politico-religioso: considero questa pretesa una pazzia, anche quando la si rivesta del buon proposito di infondere lo spirito di Cristo in tutte le attività umane»[11]. Ben diverso è il fatto che egli abbia sempre affermato il diritto e il dovere della Gerarchia della Chiesa di pronunciare giudizi morali su realtà temporali, quando ciò fosse richiesto dalla fede o dalla morale cristiane[12]. Più ancora, insegnò costantemente che in tal caso i fedeli hanno l’obbligo morale di accettare nel loro intimo e pubblicamente i giudizi dottrinali della Gerarchia[13], e nei suoi insegnamenti orali e scritti si ritrovano i contenuti fondamentali del magistero pontificio ed episcopale in materia sociale. Tale comportamento peraltro sottolinea con forza la sua abituale linea di condotta: nella Chiesa il diritto e il dovere di dare un giudizio morale sui nuovi problemi posti dalla continua evoluzione sociale o dai progressi tecnologici tocca alla Gerarchia ecclesiastica.
Un secondo motivo della sua linea di condotta scaturisce dalla natura della missione di san Josemaría come fondatore e pastore di anime. L’Opus Dei ha una missione esclusivamente spirituale[14]. Ai suoi fedeli non propone né suggerisce «nessuna strada determinata, né di tipo economico, né politico, né culturale. In questi campi, ogni membro ha piena libertà di pensare e di agire come meglio crede [...]: nell’Opus Dei trovano posto persone di tutte le tendenze politiche, culturali, sociali ed economiche che la coscienza cristiana può ammettere [...] Questo pluralismo non è, per l’Opera, un problema. Al contrario, è una manifestazione di buono spirito, che rende palese la legittima libertà di ciascuno»[15]. E se rimanessero dei dubbi, san Josemaría non ebbe difficoltà ad affermare: «Se qualche volta l’Opus Dei avesse fatto politica, anche solo per un secondo, io — in quell’istante sbagliato — me ne sarei andato dall’Opera»[16].
Le considerazioni che abbiamo or ora fatto sono vere e importanti, ma incomplete, dato che si limitano a dire ciò che gli insegnamenti di san Josemaría non sono. Quali sono allora gli insegnamenti sull’azione politica e sociale del cristiano che senza dubbio troviamo nei suoi scritti? Come possiamo definirli in positivo? Si deve cercare la risposta alla luce di una dichiarazione di capitale importanza: «L’attività principale dell’Opus Dei consiste nel dare ai suoi membri, e a tutte le persone che lo desiderano, i mezzi spirituali necessari per vivere da buoni cristiani in mezzo al mondo. Pertanto l’Opera fa loro conoscere la dottrina di Cristo e gli insegnamenti della Chiesa; infonde in loro uno spirito che li spinge a lavorare bene, per amore di Dio e al servizio di tutti gli uomini. In poche parole, li aiuta a comportarsi da cristiani: a convivere con tutti, a rispettare la legittima libertà di tutti e a fare che questo nostro mondo sia più giusto»[17]. Gli insegnamenti di san Josemaría, dunque, si propongono di dare la formazione necessaria per vivere come buoni cristiani in mezzo al mondo. È stato scritto giustamente che questi insegnamenti costituiscono una chiamata pressante a «una pienezza di vita cristiana che, realizzandosi in mezzo al mondo, suscita una messe costante di cambiamenti sociali, con la vera giustizia, la fraternità e la pace. Infatti la fede e l’amore devono farsi vita manifestandosi in opere; la grazia può e deve produrre frutti di redenzione nell’attuale momento storico. Al contempo tale pienezza di vita trascende i risultati sociali, dato che l’orizzonte dell’esistenza umana è più ampio del tempo e della storia; i risultati esterni sono piuttosto effetti che vengono come sovrappiù rispetto alla realtà fondamentale: la radicale identificazione con Cristo, la piena dedizione a Dio»[18].
Dobbiamo pertanto concludere che il contesto degli insegnamenti che stiamo studiando è la formazione della coscienza dei cristiani che vivono nel mondo e che nel mondo desiderano santificarsi, vivificando cristianamente le realtà in cui si svolge la loro vita: realtà professionali, culturali, sociali, politiche, eccetera. In vista di questo fine il Fondatore dell’Opus Dei trasmetteva «la dottrina di Cristo» e «gli insegnamenti della Chiesa» (per quel che ci riguarda, la dottrina sociale della Chiesa)[19]. Nei suoi scritti, però, questa dottrina e questi insegnamenti acquistano accenti, prospettive e intenti specifici e spesso altamente originali, che per questo non sempre furono ben compresi anche da parte di osservatori ben intenzionati. Le nostre riflessioni si incentreranno ora su questi accenti, prospettive e intenti.
3. La cornice teologica fondamentale
Negli scritti di san Josemaría si avverte chiaramente la costante e unificante presenza di «una comprensione singolarmente ricca e coerente del mistero di Cristo, perfetto Dio e perfetto uomo», che permette di trovare nell’«Incarnazione del Verbo il fondamento perennemente attuale e operativo della trasformazione cristiana dell’uomo e, attraverso il lavoro umano, di tutte le realtà create»[20]. Commentando gli insegnamenti dell’Epistola ai Colossesi (1, 19-20), afferma: «Non c’è nulla che sia estraneo alle attenzioni di Cristo. Parlando con rigore teologico, senza limitarci a una classificazione funzionale, non si può dire che ci siano realtà — buone, nobili, e anche indifferenti — esclusivamente profane: perché il Verbo di Dio ha stabilito la sua dimora in mezzo ai figli degli uomini, ha avuto fame e sete, ha lavorato con le sue mani, ha conosciuto l’amicizia e l’obbedienza, ha sperimentato il dolore e la morte»[21]. E, facendo riferimento più direttamente al tema di cui ci occupiamo, aggiunge: «Il compito apostolico che Cristo ha affidato a tutti i suoi discepoli ha dunque un riflesso concreto nell’ambito sociale. È inammissibile pensare che per poter essere cristiani sia necessario voltare le spalle al mondo, guardare con pessimismo la natura umana [...]. Il cristiano deve essere sempre pronto a santificare la società dal di dentro»[22].
Il principio cristologico che abbiamo appena menzionato determina la visione che san Josemaría ha su ciò che per un cristiano significa stare nel mondo e vivere nel mondo o, per dirla con altre parole, sul concetto di secolarità. Esso si traduce in ciò che potremmo chiamare il principio di responsabilità e di partecipazione: vivere nel mondo significa sentirsi responsabile del mondo, assumendosi il compito di partecipare alle attività umane per dar loro una configurazione cristiana. «Prendete parte senza paura a tutte le attività e organizzazioni degli uomini — scriveva nel 1959 —, perché Cristo vi si renda presente. Io ho applicato al nostro modo di lavorare queste parole della Scrittura: ubicumque fuerit corpus, illic congregabuntur et aquilae (Mt 24, 28), perché Dio nostro Signore ce ne chiederà conto se, per trascuratezza o comodità, ciascuno di noi, liberamente, non cerca di intervenire nelle opere e nelle decisioni umane da cui dipendono il presente e il futuro della società»[23]. È sottesa in queste parole una percezione acuta del senso etico e religioso dell’interdipendenza tra gli uomini e i popoli, che nella società moderna ha acquisito una dimensione mondiale. Fin dagli inizi della sua attività il Fondatore dell’Opus Dei avvertì la necessità di non rinchiudere in confini stretti, provinciali, la solidarietà cristiana, pur nel contempo dichiarando, con prudente realismo, che la solidarietà comincia con chi ci sta più vicino. La preoccupazione santa di un cristiano — scriveva nel 1933 — «comincia da ciò che è alla sua portata, dalle occupazioni ordinarie quotidiane, e a poco a poco allarga la sua ansia di messi in cerchi concentrici: in seno alla famiglia, nell’ambiente di lavoro; nella società civile, nell’ambiente universitario, nell’assemblea politica, tra tutti i suoi concittadini quale che sia la loro condizione sociale; giunge sino alle relazioni tra i popoli, abbraccia nel suo amore razze, continenti, civiltà diversissime»[24].
Particolarmente interessante e complesso è il modo in cui questa responsabilità verso il mondo deve realizzarsi. In molte sue riflessioni si percepisce l’eco del Sermone della Montagna, che contiene un messaggio caratterizzato da una novità che non comporta rottura, ma compimento[25]: gli insegnamenti del Signore non sono in contrasto con i contenuti più nobili della legge di Mosè e della morale semplicemente umana, ma li conducono alla loro pienezza, li interiorizzano e li radicalizzano, portandoli così alla loro più compiuta espressione, liberi da casistiche estenuanti.
Questa prospettiva, che riflette fedelmente la logica dell’Incarnazione, ha molte applicazioni negli scritti che stiamo esaminando; di molte di esse, come — per esempio — la convinzione che tra la fede e la scienza esiste una perfetta armonia, o la grande stima per le virtù umane, ora non possiamo occuparci. Per ciò che riguarda il nostro tema, interessa far notare l’alto valore che viene riconosciuto alle realtà create e, più specificamente, alla libertà personale, principale dono naturale concesso da Dio all’uomo, nonché all’autonomia e al valore intrinseco delle realtà terrene[26].
L’autonomia e il valore delle realtà temporali implica l’imperativo di conoscere e rispettare la loro dinamica intrinseca, frutto della razionalità che la Sapienza del Creatore ha impresso nelle sue opere, e di conseguenza un’esigenza di competenza tecnica e professionale, presupposto imprescindibile di qualsiasi progetto apostolico per la santificazione del mondo dal di dentro. «Quando il cristiano, com’è suo dovere, lavora, non deve sfuggire le esigenze proprie della natura. Se con la frase benedire le attività umane si volesse eludere la loro dinamica propria, mi rifiuterei di usare l’espressione. A me personalmente non convince per niente il fatto che le comuni attività degli uomini portino come etichetta inautentica una qualifica confessionale. Mi sembra infatti — ma rispetto l’opinione contraria — che si corra il pericolo di nominare invano il nome santo della nostra fede; per di più, non sono mancate occasioni in cui l’etichetta cattolica è stata utilizzata per coprire atteggiamenti e operazioni non del tutto onesti»[27].
Questa stessa prospettiva, quando coinvolge l’ambito sociale, dà luogo a una profonda comprensione della natura e del valore intrinseco delle relazioni sociali. Dio non crea solo individui, crea anche relazioni sociali — come per esempio la famiglia — la cui dinamica deve essere conosciuta, apprezzata e rispettata, dato che vogliamo anche redimerla. Potremmo forse precisare meglio: Dio non crea individui, crea persone, e per questo crea anche relazioni. Per molti anni nelle scienze sociali è stata dominante la tendenza a definire l’esistenza umana come una polarità tra l’individuo, inteso come atomo, e lo Stato; si ammetteva al massimo un terzo polo: il mercato. Solo recentemente, con lo sviluppo della sociologia del terzo e quarto settore, si sta superando questa impostazione ristretta[28]. Egli non entrò mai in dibattiti metodologici con le scienze sociali, ma i suoi insegnamenti e le sue iniziative nell’ambito della famiglia, dell’insegnamento, della promozione sociale, dei mezzi di comunicazione sociale, eccetera, dimostrano che possedeva una visione dei “soggetti sociali”[29] molto più ampia di quanto era abituale in tanti studiosi del sociale. Probabilmente questa sua sensibilità derivava dalla profonda meditazione e dall’elaborazione personale dei principi della dottrina sociale della Chiesa, anche se potremo formulare un giudizio definitivo su questa ipotesi solo quando sarà possibile compiere un approfondito studio sulla genesi e le fonti della sua concezione della specificità del sociale, in quanto realtà diversa dallo statale e dal semplicemente privato[30].
Aveva anche chiara coscienza che le attività sociali e politiche non sono semplici enunciazioni di principi perenni, ma realizzazioni concrete di beni umani e sociali in contesti ben determinati, caratterizzate da una contingenza almeno parzialmente insuperabile, che d’altra parte è caratteristica di tutto ciò che è pratico. Per questo affermava che «nessuno può pretendere di imporre nelle questioni temporali dogmi che non esistono. Di fronte a un determinato problema, qualunque esso sia, la soluzione è questa: prima studiare a fondo, e poi agire in coscienza, con libertà personale e con responsabilità altrettanto personale»[31]. Con questo non intendeva dire che tutto ciò che c’è in questa terra è contingente, giacché proclamava ai quattro venti, senza rispetti umani, le esigenze etiche universalmente valide. Il suo pensiero rimane espresso con chiarezza nel punto 275 di Solco: «Non dimenticarmi che, negli argomenti umani, anche gli altri possono aver ragione: vedono lo stesso problema che vedi tu, ma da un altro punto di vista, con altra luce, con altra ombra, con altro contorno. — Solo in questioni di fede e di morale esiste un criterio indiscutibile: quello della Chiesa, nostra Madre».
Il senso del limite che ogni progetto umano incontra nella messa in pratica dei valori, influì notevolmente sul suo modo di intendere il principio di libertà, così come sul rifiuto a tollerare l’imposizione di criteri unici su problemi che ammettono soluzioni diverse e ugualmente compatibili con la coscienza cristiana: «Le limitazioni alla libertà dei figli di Dio, alla libertà delle coscienze o alle legittime iniziative sono arbitrarie e ingiuste. Sono limitazioni che derivano dall’abuso di autorità, dall’ignoranza o dall’errore di quanti pensano di potersi permettere di fare discriminazioni per nulla ragionevoli. Questo modo ingiusto e antinaturale di agire, contrario alla dignità della persona umana, non può mai essere la via per convivere, dato che calpesta il diritto dell’uomo ad agire secondo coscienza, il diritto di lavorare, di associarsi, di vivere in libertà dentro i confini del diritto naturale»[32].
Al principio di libertà abbiamo già accennato, anche se da una prospettiva molto limitata. Abbiamo detto, infatti, che la coscienza del carattere esclusivamente spirituale della sua missione sacerdotale e della finalità dell’Opus Dei lo portò a non esprimere opinioni né a suggerire soluzioni su problematiche specifiche. Coloro che lo seguivano e lo ascoltavano erano liberi di avere qualsiasi opinione compatibile con la fede e la morale cristiane. Questa linea di condotta appare ancor più rafforzata dalla consapevolezza dell’autonomia e del valore intrinseco delle realtà temporali, tanto più per l’inevitabile dose di contingenza e incertezza con cui in un certo momento si dà soluzione pratica a un determinato problema. Per comprendere però il significato che il principio di libertà ha nel pensiero di san Josemaría si devono fare vari passi in più.
La libertà, infatti, appare nei suoi scritti come un valore sostanziale, indissolubilmente unito al principio di responsabilità e, pertanto, alla partecipazione e alla solidarietà. La presenza del principio di responsabilità ci fa comprendere che la libertà per lui non è né un valore meramente formale né di metodo, e tanto meno l’espressione di una concezione individualista-atomista dell’uomo; il fatto però che la responsabilità sia vista come inseparabilmente unita al principio di libertà, porta a rifiutare qualsiasi tipo di provvidenza sociale che danneggi o sopprima la “soggettività” delle formazioni sociali, e cioè, che metta fuori gioco la libertà o che in un modo o nell’altro ingeneri irresponsabilità. In definitiva ci pare che se volessimo esporre in una formula sintetica la prospettiva che unifica il suo pensiero in ordine all’azione sociale e politica del cristiano, essa non potrebbe essere altra che il nesso inscindibile tra la libertà personale e la correlativa personale responsabilità.
4. Libertà, responsabilità, partecipazione e solidarietà
Possiamo affrontare questo tema con un testo che mette in rapporto in modo sintetico aspetti diversi del principio di libertà. In primo luogo, l’affermazione netta del valore naturale e cristiano della libertà unita alla responsabilità: «Ne esiste uno [un bene] che bisogna sempre ricercare in modo particolare: la libertà personale. Solo quando si difende la libertà individuale degli altri, pur esigendo la corrispondente responsabilità personale, è possibile difendere onestamente e cristianamente la propria libertà. Torno a ripetere, e ripeterò sempre, che il Signore, che ci ha fatto gratuitamente un grande dono soprannaturale — la grazia divina — ci ha dato anche un gran bene naturale: la libertà personale, che per non corrompersi e diventare libertinaggio, ci richiede integrità, impegno efficace di comportarci secondo la legge divina, perché dove c’è lo Spirito del Signore c’è libertà (2 Cor 3, 17). Il Regno di Cristo è regno di libertà [...]. Senza libertà è impossibile corrispondere alla grazia, ed è quindi impossibile darci liberamente al Signore per il più soprannaturale dei motivi: perché ne abbiamo voglia. Quanti di voi mi conoscono da più anni, possono essermi testimoni che ho sempre predicato il criterio della libertà personale e della corrispondente responsabilità. Ho cercato e cerco la libertà, per tutta la terra, come Diogene cercava l’uomo. L’amo ogni giorno di più, l’amo al di sopra di tutte le cose terrene: è un tesoro che non apprezzeremo mai abbastanza»[33].
Subito dopo, la rivendicazione del carattere etico, e non politico nel senso di politica di partito, di quanto ha affermato sopra: «Per me, parlare di libertà personale non è un pretesto per trattare altre questioni, forse molto legittime, ma che non appartengono al mio compito di sacerdote. So che non tocca a me trattare i temi secolari e contingenti, propri della sfera temporale e civile, che il Signore ha affidato alla libera e serena discussione degli uomini. So anche che le labbra del sacerdote, evitando ogni partigianeria umana, devono aprirsi soltanto per condurre le anime a Dio, alla sua dottrina spirituale di salvezza, ai Sacramenti che Gesù ha istituito, alla vita interiore che si avvicina al Signore nella consapevolezza di essere suoi figli e quindi fratelli di tutti gli uomini, senza eccezione alcuna»[34]. E da ultimo, l’applicazione del principio di libertà all’ambito della partecipazione e della convivenza: «Amiamo veramente tutti gli uomini. E amiamo soprattutto Cristo. Allora non potremo far altro che amare la legittima libertà degli altri, in una pacifica e rispettosa convivenza»[35]. Vediamo in modo più approfondito i diversi aspetti.
4.1 Libertà, responsabilità, pluralismo
Per san Josemaría amare la libertà implica necessariamente amare «il pluralismo che la libertà necessariamente comporta»[36]. Pluralismo non è sinonimo di conflitto o di tensione: «La mia risposta non può essere che una: convivere, comprendere, scusare. Il fatto che uno la pensi in maniera diversa dalla mia — specie quando si tratta di cose che sono oggetto di libera opinione — non può assolutamente giustificare un contegno ostile, e neppure freddo o indifferente. La mia fede cristiana mi dice che la carità va vissuta con tutti, anche con coloro che non hanno la grazia di credere in Gesù Cristo»[37]. L’ambito dell’opinabile è abbastanza vasto quando si cerca di risolvere praticamente problemi sociali e politici. È vero — scriveva nel 1948 — «che vi deve guidare la vostra fede, quando dovete dare un giudizio su fatti e situazioni contingenti della terra»; ma è anche vero che «la dottrina cattolica non impone soluzioni specifiche, tecniche, ai problemi temporali; esige però che abbiate sensibilità di fronte a questi problemi umani, e senso di responsabilità per farvi fronte e dar loro una soluzione cristiana»[38]. In questo ultimo testo, che contiene una considerazione oggi comunemente accettata ma che nel 1948 non era frequente udire, si nota che l’affermazione della libertà nell’opinabile appare sempre unita a quella della responsabilità.
In un altro documento parla di questa relazione in modo ancor più esplicito, e osserva inoltre che non tutto è opinabile e che, pertanto, la libertà di un cristiano ha limiti evidenti: «Dovete, dunque, sentirvi liberi in tutto ciò che è opinabile. Da questa libertà nascerà un santo senso di responsabilità personale, che rendendovi sereni, forti e amici della verità vi preserverà allo stesso tempo da tutti gli errori: perché rispetterete sinceramente le legittime opinioni degli altri [...]. Tuttavia, rifiuteremo sempre ciò che è contrario a quanto la Chiesa insegna. Giacché, proprio per l’amore alla verità e per la rettitudine d’intenzione, vogliamo essere fortes in fide (1 Pt 5, 9), forti nella fede, con una fedeltà gioiosa e salda»[39].
Il senso della libertà e della responsabilità personali caratterizza il modo di contribuire a che «l’amore e la libertà di Cristo presiedano tutte le manifestazioni della vita moderna»[40] e fa scoprire la «compenetrazione reciproca» che esiste tra «l’apostolato e l’ordinamento della vita pubblica da parte dello Stato»[41]. Tale compenetrazione apre orizzonti apostolici importanti che devono però essere realizzati «con libertà personale e personale responsabilità»[42]. Ciò significa che, salvo circostanze eccezionali in cui la legittima autorità della Chiesa consigliasse diversamente, la sincera intenzione di informare cristianamente le attività temporali non autorizza a identificare la soluzione considerata ottimale con la soluzione cattolica o cristiana tout court, né a pensare che tutti i cittadini cattolici hanno il dovere morale di accettarla e, pertanto, di metterla in pratica monoliticamente. In un testo rimasto celebre per la sua chiarezza, affermava che al cittadino cristiano ben intenzionato «non viene mai in mente di credere o di dire che lui scende dal tempio al mondo per rappresentare la Chiesa, e che le sue scelte sono le soluzioni cattoliche di quei problemi [...]. Un atteggiamento del genere sarebbe clericalismo, cattolicesimo ufficiale o come volete chiamarlo. In ogni caso, vuol dire violentare la natura delle cose. Dovete diffondere dappertutto una vera mentalità laicale, che deve condurre a tre conclusioni: a essere sufficientemente onesti da addossarsi personalmente il peso delle proprie responsabilità; a essere sufficientemente cristiani da rispettare i fratelli nella fede che propongono — nelle materie opinabili — soluzioni diverse da quelle che sostiene ciascuno di noi; e a essere sufficientemente cattolici da non servirsi della Chiesa, nostra Madre, immischiandola in partigianerie umane»[43].
Quest’ultima considerazione meriterebbe un commento ampio che ora non possiamo fare. Qualche lettore forse pensa che questo modo di agire porterebbe a indebolire la presenza dei cristiani — e dei valori che per i cristiani sono importanti — nella vita sociale e politica. Quanto diremo più avanti a proposito della partecipazione e della solidarietà aiuterà a capire che così non è. Ci sembra che le parole sopra citate siano ispirate da una giusta avversione per la mentalità del «partito unico e obbligatorio» che, nel tentativo di imporre un’opinione unica su argomenti contingenti, provocherebbe divisione tra i cristiani in ciò che è, invece, veramente irrinunciabile. «Così succede spesso — scriveva nel 1946 — che si vedono cattolici che sentono con più forza l’affinità ideologica con altri uomini — anche se nemici della Chiesa — che non il vincolo stesso della fede con i loro fratelli cattolici; e che, mentre dissimulano le differenze, in ciò che è essenziale, che li dovrebbero distinguere dalle persone di altre religioni, o senza alcuna religione, non sanno riconoscere il comune che hanno con gli altri cattolici, per convivere con essi e non esasperare le possibili divergenze di opinione in ciò che è contingente»[44].
4.2 Libertà e formazione cristiana
L’accento posto sul principio di libertà e di responsabilità personali ha come presupposto che il cittadino cristiano si impegni ad acquisire una solida formazione, in modo che la sua azione costituisca effettivamente un contributo positivo al retto ordine della vita sociale. Già in un suo scritto del 1932 ricordava la necessità di dare a tutti una siffatta formazione. «A tal proposito vi dirò qual è il mio grande desiderio: vorrei che, nel catechismo della dottrina cristiana per i bambini, si insegnasse chiaramente quali sono i punti fermi in cui non si può cedere, quando si interviene in un modo o nell’altro nella vita pubblica; e che, nello stesso tempo si affermasse il dovere di intervenire, di non astenersi, di prestare la propria collaborazione per servire, con lealtà e con libertà personale, il bene comune. Questo è un mio grande desiderio, perché vedo che così i cattolici apprenderebbero queste verità fin da bambini e saprebbero praticarle una volta diventati adulti»[45]. Oggi questo desiderio è diventato realtà, da quando il Catechismo della Chiesa Cattolica e altri catechismi nazionali concedono la dovuta attenzione ai temi sociali e politici[46]. Il problema è di importanza fondamentale, perché dall’adeguata formazione dei laici dipende che la loro presenza nella vita pubblica dia come risultato l’ordinamento cristiano del mondo, e non la «mondanizzazione» dei cristiani: è ciò che san Josemaría, in una certa occasione, confidò a un gruppo di padri conciliari e di periti del Concilio Vaticano II che erano andati a parlare con lui.
Quando in questo scritto si parla di formazione non si intende la trasmissione di soluzioni prefabbricate e immutabili, chiuse al dialogo costruttivo. Formare significa piuttosto promuovere una sensibilità per le esigenze del bene comune, e stimolare una riflessione che, alla luce della fede, permetta di progredire nella comprensione della realtà e dei mutamenti sociali. La formazione è una fonte e un’occasione di solidarietà, cioè, di partecipazione solidale all’impresa comune di ricerca della verità. «Nell’aiuto reciproco occupa un ruolo importante il contribuire a conoscere, a scoprire la verità. La nostra intelligenza è limitata, con sforzo e dedizione possiamo forse solo arrivare a intendere una parte della realtà, ma le cose che ci sfuggono sono molte. Un’altra manifestazione della solidarietà tra gli uomini è rendere comuni le conoscenze acquisite, rendere partecipi gli altri delle verità che siamo riusciti a scoprire, fino a costituire così quel patrimonio comune che si chiama civiltà, cultura»[47].
4.3 Libertà e partecipazione
Nelle riflessioni di san Josemaría in materia sociale e politica l’idea maggiormente presente è senza dubbio quella della connessione tra il principio di libertà e quello di partecipazione. Torna a più riprese su di essa, presentandola da vari punti di vista, e con propositi diversi, a seconda del contesto in cui si muovono le sue riflessioni. In ogni caso è sempre presente la convinzione che la passività, la pigrizia, il «lasciar fare», rappresentano una tentazione continuamente in agguato, poiché il lavoro per il bene comune richiede impegno e sacrificio. «Il vostro amore per tutti gli uomini — scriveva nel 1948 — vi deve portare ad affrontare i problemi temporali con coraggio, secondo coscienza. Non abbiate timore del sacrificio, né di assumere incarichi onerosi. Nessuna vicenda umana può lasciarvi indifferenti, al contrario tutte devono essere occasione per fare il bene delle anime e per agevolare loro il cammino verso Dio»[48]. E in un’altra occasione, volendo fare un esempio della responsabilità apostolica con cui devono essere vissute le relazioni naturalmente connesse all’attività professionale e alla condizione secolare delle persone cui si rivolgeva con una lettera, specificava: «Non potete essere assenti — sarebbe un’omissione criminale —, dalle assemblee, dai congressi, dalle esposizioni, dagli incontri tra uomini di scienza o tra operai, dai corsi di studio, in una parola da qualsiasi iniziativa scientifica, culturale, artistica, economica, sportiva, eccetera. A volte le promuoverete voi stessi; il più delle volte saranno state promosse da altri e voi vi parteciperete. E, in ogni caso, vi sforzerete di non assistere passivamente, anzi, sentendo il peso — peso amabile — della vostra responsabilità, farete in modo di rendervi necessari — per il vostro prestigio, il vostro spirito di iniziativa, il vostro slancio —, e così darete il tono giusto e infonderete in tutte queste organizzazioni lo spirito cristiano»[49].
Questa presenza attiva non era, nella sua mente, un “apostolato di penetrazione”, ancorché accettasse con coraggio il rischio che qualcuno potesse pensare così. La sua idea era ben diversa: «Spero proprio che venga il giorno in cui la frase i cattolici penetrano nei diversi ambienti sociali non sia più in circolazione, e che tutti si rendano conto che si tratta di un’espressione clericale. E comunque non c’entra affatto con l’apostolato dell’Opus Dei. I membri dell’Opus Dei non hanno bisogno di penetrare nelle strutture temporali per il semplice fatto che sono dei cittadini comuni, uguali agli altri, e perciò in queste struttura essi c’erano già. Se Dio chiama all’Opus Dei una persona che lavora in una fabbrica, o in un ospedale, o al parlamento, vuol dire che d’ora in poi costui si deciderà a usare i mezzi necessari per santificare, con la grazia di Dio, la propria professione. Non è altro che la presa di coscienza delle esigenze radicali del messaggio evangelico, secondo la vocazione specifica che ognuno ha ricevuto»[50]. Non prevede neppure l’elaborazione dall’alto di tattiche speciali. I primi cristiani — affermava nel 1959 — non avevano programmi sociali particolari da realizzare, «ma erano impregnati di uno spirito, di una concezione della vita e del mondo, che non poteva non avere conseguenze nella società in cui si muovevano»[51].
Il suo pensiero spaziava per orizzonti ben diversi. Egli pensava semplicemente al cittadino che adempie i suoi doveri civici ed esercita i suoi diritti[52], e sia in un caso che nell’altro è coerente con la propria concezione del mondo, dell’uomo e del bene comune politico, e si associa liberamente con coloro che — cristiani o no — condividono le stesse idee e sono disposti a metterle in pratica. Per questo quando parlava di partecipazione non intendeva fare riferimento ai cittadini, sempre pochi, che si dedicano professionalmente alla politica, e nemmeno intendeva lanciare invito a dedicarvisi, cosa del tutto inopportuna per coloro che mancano delle attitudini necessarie; «io vi parlo della partecipazione che è propria di ogni cittadino che sia cosciente dei suoi doveri civici. Vi dovete sentire spinti ad agire — con libertà e responsabilità personali —, per tutte le stesse nobili ragioni che muovono i vostri concittadini. Inoltre vi sentite spinti in modo particolare dal vostro zelo apostolico e dal desiderio di condurre a termine un compito di pace e di comprensione in tutte le attività umane»[53]. In questo senso si rammaricava di quanto sia frequente «anche tra cattolici che sembrano responsabili e pii, l’errore di pensare di essere tenuti a compiere solo i doveri famigliari e religiosi, senza quasi voler sentir parlare di doveri civici. Non si tratta di egoismo: è semplicemente mancanza di formazione, perché ancora nessuno ha mai detto loro chiaramente che la virtù della pietà — parte della virtù cardinale della giustizia — e il senso della solidarietà cristiana si concretano anche in questo essere presenti, in questo conoscere e contribuire a risolvere i problemi che coinvolgono tutta la comunità»[54].
Naturalmente fa parte della coscienza civica la sensibilità verso il valore rappresentato dallo Stato. Ricordava l’obbligo di dare buon esempio «anche come cittadini. Dovete impegnarvi nell’adempimento dei vostri doveri e nell’esercizio dei vostri diritti. Per questo, nello svolgere l’attività apostolica, come cittadini cattolici osserviamo le leggi civili con il più grande rispetto e obbedienza, e ci sforziamo di lavorare senza disattenderle»[55]. Voleva evitare che il fatto di dedicarsi con generosità ad attività senza fine di lucro, di volontariato, eccetera, potesse indurre qualcuno a sentirsi esentato dal rispettare la normativa legale con cui lo Stato regola queste attività. Per contro, auspicava che ci si impegnasse affinché le leggi fossero sempre più giuste, almeno nel senso che da esse sia riconosciuto l’interesse sociale e pubblico — nell’accezione giuridicamente più rigorosa del termine — delle iniziative di promozione che sorgono in seno alla società.
Nel 1959, a questo proposito, notava che la continua dilatazione dell’apparato statale — della quale, allora, non tutti mostravano di cogliere i rischi — si deve in buona parte «alla disattenzione dei cittadini, alla loro indifferenza nel difendere i diritti sacri della persona umana. Questa inerzia che ha origine nella pigrizia mentale e nell’apatia, alligna anche nei cittadini cattolici, che non riescono a rendersi conto che vi sono altri peccati — e più gravi — di quelli che si commettono contro il sesto comandamento del Decalogo». Davanti a questa deformazione — ancor oggi frequente —, insisteva di seguito sulla necessità di interessarsi «alle attività sociali che sorgono dalla stessa convivenza umana o che su essa esercitano un influsso diretto o indiretto: dovete dare vita e anima alle scuole professionali, alle associazioni di padri di famiglia e di famiglie numerose, ai sindacati, alla stampa, alle associazioni e ai concorsi artistici, letterari, sportivi, eccetera». Senza dimenticare che anche questa esigenza, di carattere propriamente etico, deve essere mediata dal principio di libertà e responsabilità personali: «Ciascuno di voi parteciperà a queste attività pubbliche, secondo la sua condizione sociale e nel modo più rispondente alle circostanze personali e, logicamente, con piena libertà, sia nel caso in cui si agisca individualmente, sia quando si cooperi con altri cittadini, con cui si sia stimato opportuno collaborare»[56].
A questo proposito in varie occasioni si interessò della libertà di insegnamento. Commentando le parole di Pio XI pensava che «è un grande errore, frutto forse della mentalità deformata di alcuni, pretendere che l’insegnamento [...] sia un diritto esclusivo dello Stato: in primo luogo perché ciò lede in modo grave il diritto dei genitori e della Chiesa (cfr Pio XI, Enc. Divini illius Magistri, 31-XII-1929); e poi, perché l’insegnamento è un ambito, come molti altri della vita sociale, in cui i cittadini, se lo desiderano e nel rispetto del bene comune, hanno il diritto di esercitare liberamente la loro azione»[57]. Ancor oggi sopravvive l’idea che difendere la libertà di insegnamento è volere che esista un doppio sistema scolastico: le scuole statali, di poveri e per i poveri, e le scuole private, di ricchi e per i ricchi. Con questa idea in testa molti sono sfilati allegramente per le strade delle principali città d’Europa. Se si riflette con serenità, però, non è difficile capire che non c’è ragione alcuna per cui lo Stato, con l’ingente quantità di denaro pubblico che maneggia, sia solo capace di fare scuole povere e per i poveri — a meno di non dare per scontato che il denaro pubblico debba essere necessariamente male amministrato —, mentre l’esperienza insegna che ci sono molte scuole non statali che con grande impegno sociale offrono quasi gratuitamente formazione accademica o professionale a studenti di modesta condizione economica. Non si può escludere che in qualche caso isolato si verifichino degli abusi, che lo Stato deve correggere ogni volta che il bene comune lo esiga. È sempre un abuso, comunque, che i genitori che desiderano una determinata educazione per i loro figli siano penalizzati dall’obbligo di pagare la scuola due volte: prima con le imposte e, poi, con le tasse scolastiche che alcune istituti scolastici hanno bisogno di riscuotere per poter continuare a esercitare un’attività che, come si è detto prima, riveste un evidente interesse pubblico.
Dallo studio dei testi di san Josemaría si evince che in questo problema egli vedeva innanzitutto una questione di libertà e di giustizia. «La libertà d’insegnamento non è se non un aspetto della libertà generale. Ritengo la libertà personale necessaria a tutti e in tutto ciò che è moralmente lecito. Libertà di insegnamento, dunque, a tutti i livelli e per tutte le persone. Ciò significa che ogni persona o ente idoneo deve avere la possibilità di istituire centri di istruzione a parità di condizioni, senza limitazioni inutilmente restrittive. La funzione dello Stato dipende dalla situazione sociale: è diverso il caso della Germania da quello dell’Inghilterra, del Giappone da quello degli Stati Uniti, tanto per citare dei paesi con strutture educative assai differenti. Lo Stato ha delle evidenti funzioni di promozione, di controllo, di vigilanza. E ciò comporta che all’iniziativa privata e a quella statale siano offerte le stesse possibilità: la funzione di vigilanza non consiste nel porre ostacoli, né nell’impedire o restringere la libertà»[58]. E scendendo in dettagli più specifici, relativi all’insegnamento universitario, aggiungeva: «Alcuni aspetti di un’effettiva realizzazione di questa autonomia possono essere: la libertà di scelta dei docenti e degli amministratori, la libertà di elaborazione dei piani di studio; la facoltà di costituire un proprio patrimonio e di amministrarlo. In altri termini, favorire tutte le condizioni necessarie per far sì che l’università viva di vita propria. Se avrà in sé questa vita, potrà anche trasmetterla, a beneficio di tutta la società»[59].
San Josemaría difese il diritto della Chiesa Cattolica a esercitare l’insegnamento — così come difese il diritto dello Stato —, ma né per la Chiesa né per l’Opus Dei chiese privilegi o concessioni che in qualche modo non rientrassero nei criteri di giustizia. Incoraggiò i genitori che lo desideravano ad associarsi per fondare scuole, ma non promosse mai scuole secondarie di carattere confessionale, ancorché a volte questa scelta implicasse un evidente danno economico. Tra le istituzioni universitarie che pure ispirò, hanno giuridicamente un certo grado di confessionalità cattolica solo quelle sorte in paesi in cui la legislazione non offriva altra possibilità. Sia in un caso che nell’altro, si tratta di centri docenti aperti a studenti di tutti i credo religiosi, non esclusi quelli senza alcuna fede. Egli non si preoccupava della confessionalità, che in ogni caso rispettava, ma sentiva l’esigenza etica che l’ordinamento giuridico dello Stato non sopprimesse l’esistenza o la libera attività di autentici “soggetti sociali”, quali sono la famiglia e i diversi tipi di associazioni. È un’esigenza legata inseparabilmente a una retta concezione del bene comune politico, e che incide direttamente e notevolmente nella qualità etica della convivenza.
4.4 Partecipazione, verità e carità
Abbiamo già detto che san Josemaría Escrivá considerava che la pluralità di opzioni sociali e politiche, il fatto cioè che altri cittadini propongano — su un determinato problema — una soluzione diversa dalla propria, non deve essere considerato qualcosa di negativo: il pluralismo è una realtà, oltretutto insopprimibile, che deve essere amata come la libertà umana da cui ha origine. Ora dobbiamo parlare di un tema differente. Nella vita sociale può esistere, oltre al pluralismo di scelte politiche, una diversità di credenze religiose e di idee morali: in uno stesso Stato, in una stessa città, in seno a una stessa famiglia, spesso convivono e collaborano persone che hanno credenze religiose o morali differenti da quelle che in coscienza consideriamo vere e oggettivamente vincolanti. Tale convivenza può creare e di fatto crea tensioni e problemi di varia natura. La dottrina della Chiesa Cattolica indica un criterio di azione in alcune situazioni che possono presentarsi, per esempio, in ordine al diritto alla libertà religiosa[60], alla cooperazione al male[61] o al comportamento in presenza di leggi ingiuste[62].
I problemi storicamente legati alle differenze religiose e morali, insieme a fattori di tipo ideologico, hanno originato la mentalità, in alcuni ambienti molto diffusa, per cui la convinzione che esiste una verità sul bene della persona e delle comunità umane possa causare relazioni ingiuste di dominio o di violenza tra gli uomini. Da questa idea, che ora non ci soffermiamo ad analizzare, possono derivare atteggiamenti diversi: alcuni considerano che è un bene, o almeno il male minore, necessario per la convivenza democratica, una certa dose di agnosticismo o di relativismo[63], per cui pensano che in ambito pubblico è meglio non parlare delle verità ultime, spingendosi a esigere, come condizione per qualsiasi forma di dialogo, la disponibilità dell’interlocutore a rinunciare o, almeno, a mettere in sordina le convinzioni esistenziali costitutive della propria identità; chi non è disposto a farlo, viene accusato di essere un cattivo cittadino, un nemico della convivenza. Davanti a questa prospettiva, altri si chiudono al dialogo, perché non vogliono o non sanno dare certe spiegazioni, per timore o perché si sentono sottoposti a un ricatto morale; altri pensano che il dialogo è un bene per cui vale la pena cedere, cioè, rinunciare, almeno all’esterno e per tattica, alla propria identità, anche se è un atteggiamento che comporta una certa doppiezza, poco leale sia verso le proprie convinzioni che verso gli stessi interlocutori.
Verso questo problema il Fondatore dell’Opus Dei dimostrò, fin dagli inizi della sua attività, una grande sensibilità. Alla base delle sue riflessioni stanno due insegnamenti ricavati dal Nuovo Testamento: quello del Signore che avverte che non esiste un vero dilemma tra ciò che si deve a Dio e ciò che si deve a Cesare[64], e l’insegnamento di san Paolo che la verità deve essere esposta con carità, senza ferire[65].
Perciò più volte ribadì la sua convinzione che non esiste «contrapposizione tra il servizio a Dio e il servizio agli uomini; fra l’esercizio dei nostri diritti e doveri civili, e quelli religiosi; tra l’impegno per costruire e migliorare la città terrena, e la convinzione che camminiamo in questo mondo diretti alla patria celeste»[66]. Questa convinzione si basa sul fatto che egli non aveva difficoltà ad armonizzare il diritto a mantenere la propria identità intellettuale e spirituale e il dovere di parlare con semplicità o di collaborare con chi ha idee diverse. «Ho sempre insistito, affinché questa idea vi rimanga ben chiara, sul fatto che la dottrina della Chiesa non è compatibile con gli errori che si oppongono alla fede. Ma forse non possiamo essere leali amici di coloro che praticano tali errori? Se siamo ben saldi nella condotta e nella dottrina, non possiamo forse collaborare con loro, in tanti campi?»[67].
Senza dubbio pensava che la collaborazione con persone di credenze diverse in molte occasioni poteva offrire l’opportunità di diffondere la verità e di dissipare pregiudizi e malintesi. In ogni caso, l’importante era mantenere una linea di condotta evangelica; da qui «la cristiana preoccupazione di far sì che scompaia qualsiasi forma di intolleranza, di coazione e di violenza nel rapporto reciproco tra gli uomini. Anche nell’azione apostolica — meglio: soprattutto nell’azione apostolica —, vogliamo che non ci sia neppure l’ombra della costrizione. Dio vuole che lo si serva in libertà e, pertanto, un apostolato che non rispettasse la libertà delle coscienze non sarebbe giusto»[68].
Distinse con chiarezza estrema la relazione intima della coscienza personale con la verità, dalla relazione tra persone. La prima è presieduta dal potere normativo della verità, perché non è mai onesto non essere coerente con quel che in coscienza si giudica vero; la seconda, dalla giustizia e dalle inalienabili esigenze della dignità della persona. Per questo parlava, riferendosi alla prima delle due relazioni, di santa intransigenza, termine con cui indicava la coerenza, la sincerità, a cui si oppone la codardia, cioè, l’atteggiamento di chi essendo convinto che due più due fa quattro, per debolezza o comodità dice che fa tre e mezzo. Aggiungeva sempre, però, che l’intransigenza riferita a una affermazione dottrinale non è santa se non è unita alla transigenza amabile verso la persona che sostiene una posizione diversa dalla nostra, che consideriamo erronea. Vale la pena di citare letteralmente alcune parole scritte nel 1933, quando non era abituale parlare di diritto alla libertà religiosa: «Accanto alla santa intransigenza, lo spirito dell’Opera di Dio vi chiede una costante transigenza, anch’essa santa. Essere fedeli alla verità, coerenti alla dottrina, difendere la fede, non significano uno spirito triste, e tanto meno il desiderio di annientare chi è nell’errore. Può darsi che questo sia il modo di essere di qualcuno, ma non può essere il nostro. Mai benediremo come quel povero pazzo che — applicando alla sua maniera le parole della Scrittura — invocava sui suoi nemici ignis, et sulphur, et spiritus procellarum (cfr Sal 10, 6); brace, fuoco e zolfo, vento impetuoso. No, noi non vogliamo la distruzione di nessuno; la santa intransigenza non è un’intransigenza arida, rozza e sgarbata; né è santa, se non è associata alla santa transigenza. Vi dirò di più: nessuna delle due sono sante, se non comportano —accanto alle virtù teologali— la pratica delle quattro virtù cardinali [...] Dobbiamo vivere, in breve, in un dialogo continuo con i nostri colleghi, con i nostri amici, con tutte le anime che si avvicinano a noi. Questa è la santa transigenza. Potremmo sicuramente chiamarla tolleranza, ma tollerare mi pare poco, perché non si tratta solo di ammettere, come male minore o inevitabile, che gli altri la pensino in modo diverso o siano in errore»[69].
Il suo atteggiamento a questo riguardo era fermo e chiaro e non ammetteva eccezioni. Considerava l’intolleranza un’ingiustizia di fronte alla quale si doveva reagire. «Per questo, quando qualcuno cercasse di strapazzare quelli che sono nell’errore, siate sicuri che sentirei l’intimo impulso di stare vicino a loro, e seguirne per amor di Dio la sorte»[70]. Seppe vivere in modo pratico questi insegnamenti; è un fatto storico, infatti, che fin dal 1950 con l’autorizzazione della Santa Sede l’Opus Dei ammette come cooperatori uomini e donne non cattolici e non cristiani[71]. A ragione poté dire in un’intervista concessa nel 1967: «Già l’anno scorso ebbi a raccontare a un giornalista francese — e so che l’aneddoto ha avuto una certa eco, anche in pubblicazioni dei nostri fratelli separati — quello che dissi una volta al Santo Padre Giovanni XXIII, incoraggiato dal fascino affabile e paterno della sua persona: “Padre Santo, nella Nostra Opera tutti gli uomini, siano o no cattolici, hanno trovato sempre accoglienza: non ho imparato l’ecumenismo da Vostra Santità”. Egli rise commosso, perché sapeva che, fin dal 1950, la Santa Sede aveva autorizzato l’Opus Dei ad accogliere come associati cooperatori i non cattolici e perfino i non cristiani»[72].
Tutto ciò in definitiva dimostra che san Josemaría stimolava il dialogo aperto, leale e sincero. Credeva in esso come mezzo di coesione sociale e come occasione di comprensione e di apostolato. Avvertiva chiaramente che il bene comune della società, e soprattutto di una società complessa come quella attuale, esige di mettere a raffronto in modo corretto un’insieme di istanze e di punti di vista differenti, che non devono chiudersi in sé stessi né operare avendo come solo punto di riferimento il proprio parere personale. Soprattutto vedeva che la condiscendenza dimostrata da Dio allorché volle che il Verbo eterno si facesse anche parola umana, elevava il dialogo umano a criterio di condotta vincolante per la coscienza cristiana.
Lo spazio disponibile non ci consente di toccare altri temi trattati nei suoi scritti. Crediamo, tuttavia, che con la spiegazione del principio di libertà e di responsabilità, il filo conduttore delle sue riflessioni sulla formazione della coscienza in materia sociale e politica sia stato sufficientemente esposto
[1] Pubblicato in «Romana» XIII/24 (1997) 162-181. Ripreso con alcune modifiche in Rodríguez Luño, A., «Cittadini degni del vangelo» (Fil 1, 27). Saggi di etica politica, Edizioni Università della Santa Croce, Roma 2005, pp. 35-60.
[2] La maggior parte della bibliografia relativa al nostro tema è raccolta nel recente studio di Pero-Sanz, J. M., Aubert, J. M., Gutiérrez Calzada, T., Acción social del cristiano. El Beato Josemaría Escrivá y la Doctrina social de la Iglesia, Palabra, Madrid 1996.
[3] Cfr. Fabro, C., La tempra di un Padre della Chiesa, in Fabro, C., Garofalo, S., Raschini, M. A., Santi nel mondo. Studi sugli scritti del beato Josemaría Escrivá, Edizioni Ares, Milano 1992, p. 23.
[4] In questo senso sono molto utili i primi due capitoli del volume di De Fuenmayor, A., Gómez-Iglesias, V., Illanes, J. L., L’itinerario giuridico dell’Opus Dei — Storia e difesa di un carisma, Giuffrè Editore, 1991, pp.13-94.
[5] Qualche anno dopo la prima pubblicazione di questo nostro studio, è venuta alla luce la prima edizione critica di un’opera di san Josemaría Escrivá: Camino. Edición histórico crítica, a cura di Pedro Rodríguez, Rialp, Madrid 2002, 1195 pp. Al momento presente sono stati pubblicati anche i primi due volumi di una biografia scientifica: Vázquez de Prada, A., Il Fondatore dell’Opus Dei, Leonardo International, Milano 2003.
[6] Vedere l’ampia scelta di testi contenuta nello studio di Pero-Sanz, J. M., Aubert, J. M., Gutiérrez Calzada, T., Acción social del cristiano..., cit.
[7] Colloqui con Monsignor Escrivá, 4ª ed., Ares, Milano 1982, n. 48; ( da ora in avanti si cita: Colloqui). Vedere anche: È Gesù che passa, 4ª ed., Ares, Milano 1982, n. 183.
[8] Colloqui, n. 76.
[9] Cfr. per esempio È Gesù che passa, n. 79.
[10] Colloqui, n. 48.
[11] È Gesù che passa, n. 183.
[12] Cfr. Colloqui, n. 11.
[13] Cfr. Colloqui, n. 29. Cfr. Lettera, 30-IV-1946, 18.
[14] Cfr. per esempio È Gesù che passa, n. 70. Questa è un’affermazione rinnovata con forza in molte occasioni.
[15] Colloqui, n. 48. Per il Fondatore dell’Opus Dei esiste anche un pluralismo legittimo nel campo teologico, e in questo senso dichiarò sempre che l’Opera non ha un’opinione propria —una scuola— nelle questioni teologiche opinabili: Cfr. Lettera, 24-X-1965, 53.
[16] Citato da Vázquez de Prada, A., El Fundador del Opus Dei, 2ª ed., Rialp, Madrid 1984, p. 295.
[17] Colloqui, n. 27.
[18] L’itinerario giuridico..., cit., p. 62.
[19] Cfr. Colloqui, n. 27.
[20] Fabro, C., La tempra di un Padre della Chiesa, cit., p. 115. Su questo punto si veda anche Chabot, J. L., Responsabilità di fronte al mondo e libertà, in Belda, M., Escudero, J., Illanes, J. L., O’Callaghan, P., Santità e mondo. Atti del Convegno teologico sugli insegnamenti del beato Josemaría Escrivá, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1994, pp. 197-198.
[21] È Gesù che passa, n. 112.
[22] Ibidem, 125.
[23] Lettera 9-I-1959, n. 20; Cfr. anche Forgia, Ares, Milano 1987, n. 715. In molte altre occasioni san Josemaría fece riflettere sul fondamento cristologico del concetto di secolarità: «Si osservano a volte degli atteggiamenti che derivano dall’incapacità di penetrare in questo mistero di Gesù. Per esempio, la mentalità di chi vede nel cristianesimo soltanto un insieme di pratiche e atti di pietà, senza coglierne il nesso con le situazioni della vita ordinaria, con l’urgenza di far fronte alle necessità degli altri e di sforzarsi per eliminare le ingiustizie. Direi che chi ha questa mentalità non ha ancora compreso che cosa significa che il Figlio di Dio si sia incarnato, abbia preso corpo, anima e voce umana, abbia condiviso il nostro destino, fino a sperimentare la suprema dilacerazione della morte. Magari senza volere, alcune persone considerano Cristo come estraneo all’ambiente degli uomini. Altri, invece, tendono a immaginare che per poter essere umani bisogna mettere in sordina alcuni aspetti centrali del dogma cristiano, e agiscono come se la vita di preghiera, il colloquio continuo con Dio, costituissero un’evasione dalle proprie responsabilità e un abbandono del mondo. Dimenticano che fu proprio Gesù a rivelarci fino a quali estremi debbono essere spinti l’amore e il servizio. Soltanto se cerchiamo di capire il mistero dell’amore di Dio, il mistero dell’amore che arriva fino alla morte, saremo capaci di darci totalmente agli altri senza lasciarci sopraffare dalle difficoltà o dall’indifferenza» ( È Gesù che passa, n. 98).
[24] Lettera 16-VII-1933, n. 15.
[25] Cfr. per esempio Mt 5, 17 ss.
[26] Abbiamo già detto che in queste pagine non affrontiamo lo studio diacronico del pensiero dell’autore. Tuttavia non sarebbe difficile dimostrare che la viva sensibilità per l’autonomia e il valore intrinseco delle realtà temporali è presente fin dall’inizio dell’attività del Fondatore dell’Opus Dei, cioè fin dalla fine degli anni 20, molto prima dunque che la tematica fosse trattata dalla costituzione Gaudium et spes del Concilio Vaticano II.
[27] È Gesù che passa, n. 184.
[28] Cfr. per esempio Donati, P., Pensiero sociale cristiano e società post-moderna, Editrice A.V.E., Roma 1997; diretta dallo stesso autore, Sociologia del terzo settore, Nis, Roma 1996.
[29] Cfr. Giovanni Paolo II, Enc. Centesimus annus, nn. 46 e 49. Con riferimento a questa enciclica e alla concezione in essa proposta della “soggettività del sociale”, vogliamo affermare, tra altre cose, che qui non alludiamo al “corporativismo” difeso da alcune correnti di pensiero sociale di ispirazione cristiana. La concezione “corporativista” non appare negli scritti del Fondatore dell’Opus Dei.
[30] A quanto diciamo a proposito della percezione della specificità del sociale non può opporsi il fatto che, quando a partire dagli anni 60 diversi ambienti teologici cattolici si mostravano propensi ad accettare come principio di ermeneutica teologica l’analisi sociale marxista, il Fondatore dell’Opus Dei insistesse, nelle sue conversazioni e nei suoi scritti, sul carattere personale della salvezza e della liberazione dal peccato, opponendosi a quanti riducevano il Cristianesimo a un cambiamento delle strutture sociali. Seguendo gli insegnamenti del Magistero della Chiesa, san Josemaría affermava l’incompatibilità del marxismo con la fede cattolica, e al contempo manifestava la sua convinzione che «all’interno del cristianesimo troviamo la luce vera che dà sempre la risposta a tutti i problemi: basta che vi impegniate sul serio ad essere cattolici» (Amici di Dio, 3ª ed., Ares, Milano 1982, n. 171). Diceva queste cose nello stesso periodo in cui avviava, specialmente in paesi in cui avvertiva l’esistenza di forti sperequazioni sociali, diverse opere di promozione sociale, orientate a dare formazione professionale a giovani, contadini, casalinghe, eccetera.
[31] Colloqui, n. 77.
[32] Lettera 11-III-1940, n. 65.
[33] È Gesù che passa, n. 184.
[34] Ibidem.
[35] Ibidem.
[36] Colloqui, n. 98.
[37] Ibidem.
[38] Lettera 15-X-1948, n. 28.
[39] Lettera 9-I-1951, nn. 23-25 (il primo corsivo è nostro).
[40] Solco, n. 302.
[41] Cfr. Lettera 9-I-1932, n. 41.
[42] Ibidem, n. 40.
[43] Colloqui, n. 117.
[44] Lettera 30-IV-1946, n. 21.
[45] Lettera 9-I-1932, n. 45.
[46] Una preoccupazione simile si ritrova in Giovanni Paolo II, Esort. ap. Christifideles laici, nn. 59-60.
[47] Lettera 24-X-1965, n. 17.
[48] Lettera 15-X-1948, n. 28.
[49] Lettera 9-I-1959, n. 20. Cfr. Forgia, n. 718.
[50] Colloqui, n. 66.
[51] Lettera 9-I-1959, n. 22.
[52] Cfr. Forgia, n. 697.
[53] Lettera 9-I-1959, n. 41.
[54] Lettera 9-I-1932, n. 46.
[55] Lettera 9-I-1932, n. 35.
[56] Lettera 9-I-1959, nn. 40 e 41.
[57] Lettera 2-X-1939, n. 8.
[58] Colloqui, n. 79.
[59] Ibidem.
[60] Cfr. Concilio Vaticano II, Dichiar. Dignitatis humanae, 7-XII-1965.
[61] Cfr. per esempio Giovanni Paolo II, Enc. Evangelium vitae, n. 74.
[62] Cfr. Ibidem, 71-73.
[63] Cfr. la valutazione critica di questa tesi contenuta nell’Enciclica Centesimus annus, n. 46.
[64] Cfr. Mt 22, 15-22.
[65] Cfr. Ef 4, 15; Cfr. Forgia, n. 559.
[66] Amici di Dio, n. 165.
[67] Lettera 16-VII-1933, n. 14.
[68] Lettera 9-I-1932, n. 66.
[69] Lettera 16-VII-1933, nn. 8 e 12.
[70] Lettera 31-V-1954, n. 19.
[71] Cfr. Colloqui, n. 29.
[72] Ibidem, n. 22.